Dario Romano: Gli universi surreali di Miró, Ernst e Magritte

 

Joan Miró, Personaggio che tira un sasso a un uccello, 1926, MoMA, New York.

Joan Miró

L’artista nasce a Barcellona nel 1893. Frequenta una scuola commerciale, ma si iscrive anche all’Accademia di belle arti di Barcellona. Recatosi a Parigi, incontra Picasso e partecipa all’attività Dada. È presente al Salon d’Automne del 1923 e nel 1924 aderisce al gruppo surrealista, appena formato. Nel 1928 visita i Paesi Bassi ed inizia una serie di dipinti ispirati ai maestri olandesi, realizzando i primi papiers collés e collage. Nel 1929 fa le prime esperienze nel campo della litografia, tecnica di cui diventa maestro. All’inizio degli anni trenta esegue originali sculture con inserzione di pietre dipinte e oggetti vari. Lascia la Spagna a causa della Guerra Civile: vi ritorna nel 1941. Negli anni sessanta si dedica intensamente alla scultura. Nel 1975 la sua città, Barcellona, gli dedica un importante museo. Muore a Palma di Maiorca nel 1983 a 90 anni di età. Il catalano Joan rappresentò nelle sue opere un mondo immaginario, fatto di segni astratti e di figure fantastiche. Le forme si sovrappongono, si accostano tra loro, si intersecano, sospese in uno spazio vuoto. Sembrano scaturire libere dal sogno, invece derivano da un’opera di semplificazione e di controllo di segni e percezioni della mente, della memoria e dell’inconscio. Il suo gesto non è casuale, ma è finalizzato a comporre una specie di codice elementare di segni e di forme. In ambito dada e surrealista egli ha elaborato il suo inconfondibile linguaggio, quasi una scrittura figurata. Sulle tele si dispongono astri, soli, lune, sagome che ricordano forme umane, animali, vegetali o minerali. Segni a forma di virgole, accenti, asterischi, che derivano dalla semplificazione di elementi naturali e che si muovono entro uno spazio rarefatto. Utilizza quasi sempre pochi colori, tutti applicati puri, senza sfumature, con prevalenza dei primari. Nell’opera del Personaggio che tira un sasso a un uccello, cielo e terra sono divisi dal colore: sullo sfondo verde del cielo risaltano infatti la figura bianca del personaggio, mentre il terreno è colorato di giallo, il mare è nero. Dallo sfondo emergono la figura di un grosso piede che diventa un corpo con un unico occhio e quella di un uccello dalla cresta rossa, forse un gallo, che somiglia a un arco. Dalla figura umana parte un sasso che traccia una traiettoria indirizzata verso l’uccello. I colori sono saturi e contrastanti. Attraverso la sintesi e la deformazione dei soggetti la scena acquista un’espressione ironica e leggera, tipica delle opere surreali di Joan. 
Joan Miró, Ragazza in fuga, 1967, Fondazione Maeght, Saint Paul de Vence.

Ragazza in fuga è una scultura surrealista. Joan imparò a colorare le sculture grazie all’artista Alberto Giacometti, e successivamente esplorò vari metodi per sovrapporre pigmento alle superfici, dapprima verniciando il bronzo e poi sperimentando resine colorate. Nel 1967, Joan creò alcune sculture in bronzo colorate con tinte brillanti, collaborando con la fonderia Clementi e Susse a Parigi. Una di queste era Ragazza in fuga: l’opera consiste nell’assemblaggio di oggetti disparati, come due gambe di manichino, pezzi meccanici e una valvola da idrante.

Joan Miró, Carnevale di Arlecchino, 1925, Albright-Knox Art Gallery, Buffalo.
Una delle opere più note dell’artista è Carnevale di Arlecchino. Tra personaggi fantasiosi e oggetti vari, Arlecchino ha il corpo come una chitarra allungata, con la camicia a rombi e altre caratteristiche come i baffi, la barba, il cappello dell’ammiraglio e la pipa. Arlecchino ha lo sguardo triste, forse a causa del buco nello stomaco, probabile riferimento ai problemi finanziari dell’autore. Alcune delle forme sono oggetti antropomorfi, che ricorrono spesso nella pittura dell’artista. L’artista disse “ho sempre cercato di approfondire il lato magico delle cose”. Le forme sono in prevalenza curve, a parte la scala, il tavolo e la finestra. Innumerevoli figure, strani animali e oggetti, vivacemente colorati, popolano la stanza, fluttuando nell’aria. Nella tela appaiono elementi che verranno poi ripetuti in altre opere: la scala che simboleggia il volo e l’evasione, ma anche l’elevazione, animali e soprattutto insetti. La sfera scura che appare a destra è una rappresentazione del globo terrestre, il triangolo nero che appare nella finestra rappresenta la Torre Eiffel.

Max Ernst

Ernst nasce in Germania nel 1891. Si iscrive all’università di Bonn per studiare filosofia, ma ben presto l’abbandona per dedicarsi interamente all’arte. Nel 1911 si unisce al gruppo espressionista. A Parigi incontra Guillaume Apollinaire e Delaunay, nel 1914 conosce anche Hans Arp. Durante la prima guerra mondiale Ernst riesce a dipingere ed esporre. Nel 1919 crea i primi collage e fonda il gruppo dadaista di colonia. Nel 1925 crea i primi frottage e collabora con Joan Mirò alle scene di balletto per Sergej Diaghilev. Nel 1930 collabora con Salvador Dalì al film L’age d’or. Nel 1939 è imprigionato in Francia per le sue origini tedesche. Due anni più tardi fugge negli USA con Peggy Guggenheim che sposa nel 1942. Nel 1953 si trasferisce nuovamente in Francia e muore a Parigi nel 1976, all’età di 85 anni. Studioso di filosofia e di psichiatria, Ernst sperimentò l’Espressionismo e il Dadaismo prima di giungere al Surrealismo. Aveva una personalità acuta e ipersensibile: da piccolo aveva un alter ego in un uccellino immaginario, che chiamava Loplop. Fu abilissimo nell’associazione improbabile e sorprendente di elementi diversi, con implicazioni magiche o dissacratorie. Il titolo dell’opera Due bambini sono minacciati da un usignolo è stato ispirato da un sogno delirante, fatto da giovane mentre era a letto con il morbillo.
Ernst, Due bambini sono minacciati da un usignolo, 1924, MoMA, New York.

Il soggetto della foresta appare spesso nei dipinti di Ernst. Queste tele contengono generalmente un muro di alberi, o di tronchi, un disco solare e l’apparizione di un uccello appollaiato tra il fogliame. Ernst considera la foresta come un luogo misterioso di incanto e terrore, sulla base dei ricordi d’infanzia della foresta tedesca. Per lui la foresta è selvaggia e impenetrabile, nero e ruggine, stravagante, laica, brulicante, negligente, feroce, fervente e simpatica, al contempo nuda, vestita solo di maestosità e di mistero.
Ernst, Foresta, 1928, Guggenheim Foundation, New York.

René Magritte

Magritte nasce a Lessines in Belgio, nel 1898. Nel 1912 la madre si suicida, gettandosi in un fiume: questa tragedia influisce fortemente sulla sua pittura. Studia saltuariamente all’Accademia reale delle belle arti di Bruxelles ed espone per la prima volta nel 1920. Inoltre lavora come disegnatore in una fabbrica di carta da parati. Si occupa anche di grafica, realizzando manifesti e stand da esposizione. Nel 1927 si stabilisce nei dintorni di Parigi, dove frequenta il gruppo surrealista che comprende il poeta Eluard, oltre che Dalì e Mirò. Riceve numerose commissioni per l’esecuzione di pitture murali in Belgio e si reca per la prima volta negli USA nel 1965, in occasione di una retrospettiva al MoMA di New York. Muore a Bruxelles a 69 anni, nel 1967. Con la grafia diligente e ordinata di un alfabetiere per bambini, Magritte rappresenta alcuni oggetti che noi siamo certi di riconoscere. Le scritte che li identificano ci confondono, ponendoci di fronte ad altri possibili significati. Ciò che lascia interdetti è la chiarezza delle immagini, che sembrano non lasciare dubbi sulle nuove informazioni: così l’uovo è l’acacia, la candela è il soffitto, il bicchiere è il temporale. Tutto ciò caratterizza la Chiave dei sogni.


Magritte, Chiave dei sogni, 1950, Collezione privata, Parigi.

Al centro dell’opera Il castello dei Pirenei, campeggia un grande masso dalla forma ovaidale, le sue superfici sono scheggiate come accade nella pietra grezza. L’immagine è di grande realismo perché suggerisce anche sensazioni tattili: la durezza, la rugosità, la freddezza. L’altezza dell’opera è di circa 2 metri, ponendoci di fronte ad essa, osserveremo il mare da un punto di vista verosimile e, per l’assoluta precisione con cui Magritte lo ha dipinto, ci sembrerà di udirne il rumore pacato, ritmico e profondo. Solo sollevando lo sguardo ci accorgeremo del gigantesco masso che grava su di noi. Il problema del masso incombente sulle nostre teste appare subito chiaramente e ci rendiamo conto che è irrisolvibile. Se ci concentriamo sulla parte superiore del dipinto, riconosciamo un castello arroccato su un monte: ma tutto è pietrificato! Il castello è fatto della stessa materia della roccia ed è del tutto privo di particolari come porte o finestre. Se osserviamo la parte centrale vediamo il masso: considerando le dimensioni del castello deve essere gigantesco, ma appare come sospeso nel cielo, nonostante la forza di gravità. Il mare sembra vero. Tuttavia ci rendiamo subito conto dell’incongruenza con la pietra (un meteorite?) che sta precipitando, ma…è fermo! Nel dipinto di Magritte, però, quella realtà dipinta sembra vera e possibile, come accade nei sogni e, talvolta, nella sfera dei desideri.
Magritte, Il Castello dei Pirenei, 1959, Israel Museum of Gerusalemme.

Magritte lavorò, in un primo tempo, come illustratore e grafico pubblicitario: da qui derivò e conservò la capacità di raffigurare ogni soggetto con precisione estrema. Nelle sue opere ha utilizzato immagini tratte dal mondo reale, dipingendole con tutti i loro particolari visibili, accostandole tuttavia in modo inconsueto e paradossale: ne ha modificato le dimensioni, ne ha deformato alcune parti, le ah poste in ambientazioni anomale, ha invertito il rapporto tra figura e sfondo. Queste associazioni inattese producono una sensazione di inquietudine e di ambiguità, tanto maggiore quanto più le immagini sono descritte con grande esattezza. Magritte non ci spiega il significato delle sue opere, ma fornisce indizi visivi: anche il titolo può nascondere la chiave per interpretare i suoi enigmi. Talvolta nel quadro si leggono delle parole, che, tuttavia, non sempre hanno relazione con le immagini rappresentate. Nelle opere, per quanto paradossali, riconosciamo facilmente case, alberi, montagne, il cavalletto da pittore, un lampione ecc. Del quadro l’impero delle luci, esistono numerose versioni, simili ma con piccole variazioni. Magritte vi rappresenta la scena notturna della casa che si contrappone a un cielo diurno e luminoso. È un chiaro paradosso visivo, una contraddizione visuale che genera disagio e spiazza l’osservatore. La luminosità del cielo diventa sconvolgente e rende l’oscurità sottostante impenetrabile e inquietante. Gli elementi paesaggistici del dipinto sono riprodotti in uno stile preciso, impersonale, tipico della pittura surrealista naturalistica: a questa scelta si ispira tutta l’opera pittorica di Magritte.
Magritte, Impero delle luci, 1949, Collezione Peggy Guggenheim, Venezia.


Articolo di Dario Romano di Arte Divulgata.









Commenti

  1. Isabella De Benedittis9 ottobre 2024 alle ore 23:58

    Ringrazio sentitamente perché l'articolo offre una panoramica completa riguardo note biografiche ed opere di illustri di eccelsi artisti, che hanno lasciato orme indelebili caratterizzando il surrealismo, corrente culturale, fantastica proprio per il suo intento di voler superare canoni della razionalità, dando sfogo a pensieri, emozioni tra ricordi, sogni, istanti di vita che si concretizzano in immagini che sanno stupire inducendo a riflessioni

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  2. Finalmente una mente sensibile e competente , ottimo bravo DR.

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