Dario Romano: l'arte Metafisica e il Ritorno all'ordine

 

Giorgio de Chirico, il Canto d’amore, 1914, MoMA, New York.

Metafisica

Negli anni che precedono la prima guerra mondiale, la cultura artistica italiana, travolta dal messaggio rivoluzionario del Futurismo, si scosta poi dai movimenti di Avanguardia, preferendo orientarsi verso la pittura figurativa. La principale espressione di questa fase fu la Pittura Metafisica. La Metafisica nacque dall’incontro a Ferrara, nel 1916, tra: Carlo Carrà, Giorgio de Chirico e Filippo de Pisis. Tra gli altri artisti ricordiamo anche Alberto Savinio, Giorgio Morandi e Ardengo Soffici. Nel secondo decennio del Novecento molti artisti scelgono di ritornare alla pittura figurativa, spesso ispirandosi alla grande tradizione classica. Il termine Metafisica, derivato dal greco, significa “oltre il mondo materiale”. Gli artisti metafisici non sono interessati tanto alle cose, quanto a ciò che si nasconde dietro alla loro apparenza. I pittori non descrivono la realtà vista attraverso gli occhi, ma una realtà nuova, abitata da figure e da oggetti conosciuti, ma collocati in contesti diversi da quelli abituali: si produce così, una sensazione di spaesamento, di smarrimento, di mistero, anche di malinconia. I quadri metafisici propongono scene impossibili, costruite con prospettive volutamente errate e figure non proporzionate al contesto. Si descrivono città quasi disabitate; al loro interno l’uomo è solo, o è ridotto a manichino o statua.


Giorgio de Chirico

Nato nel 1888 in Grecia da famiglia italiana, nel 1899 frequenta brevemente il Liceo Leonino di Atene e poi torna a studiare in casa con maestri privati: studia l’italiano, il tedesco, il francese e la musica. Nel 1900 Giorgio si iscrive al Politecnico di Atene per intraprendere lo studio della pittura. Nel 1906 si trasferisce a Firenze e frequenta l’Accademia delle belle arti di Firenze. Nel 1907 si iscrive all’Accademia delle belle arti di Monaco di Baviera. All’inizio del 1910 è a Firenze dove dipinge la sua prima piazza metafisica, l’Enigma di un pomeriggio d’autunno, nata dopo una rivelazione avuta in piazza Santa Croce. Dal 1911 al 1915 de Chirico vive a Parigi, dove abita il fratello Alberto, partecipa anche al Salon d’Automne e al Salon des Indépendants e frequenta i principali artisti dell’epoca. Allo scoppio della pima guerra mondiale, i fratelli de Chirico si arruolano volontari e vengono inviati a Ferrara, nella villa del Seminario. Nel 1924 e nel 1932 partecipa alla Biennale di Venezia e nel 1935 alla Quadriennale di Roma. Negli anni cinquanta la sua pittura è caratterizzata da autoritratti in costume i tipo barocco e delle vedute di Venezia. Muore a Roma nel 1978 al termine di una lunga malattia. Giorgio de Chirico fu il principale protagonista della pittura metafisica. Restò legato alla sua cultura d’origine, quella dell’antica Grecia, con precisi riferimenti alla mitologia e all’arte classica. I suoi quadri sono affollati da Muse e Centauri, vi compaiono i Dioscuri, Ettore e Andromaca, divinità ed eroi. Questi elementi appaiono isolati o estraniati dal loro contesto, talvolta mescolati o elementi moderni come locomotive o ciminiere.

La serie delle Piazze d’Italia mostra spazi urbani in cui sono quasi sempre assenti le figure umane e il tempo sembra non scorrere: sono luoghi silenziosi, con prospettive apparentemente errate, tra ombre lunghe e file di palazzi con portici, elementi di un’architettura classica senza tempo. In Canto d’amore, de Chirico costruisce una scena che è un vero e proprio rebus: un guanto di comma o il calco di una mano attaccato al parapetto di un edificio; la testa di gesso di una statua antica, una sfera verde, un loggiato a destra; una locomotiva che sbuffa a sinistra. L’opera si intitola Canto d’amore: che cosa avrà voluto intendere l’artista? La domanda resta senza risposta il significato dell’opera sta proprio nel suo mistero. In Ettore e Andromaca, i protagonisti dell’opera sono personaggi del mito e per questo privi di volto: Ettore, principe troiano figlio di Priamo, e Andromaca, sua moglie, che Omero ci narra uniti da un profondo amore. Il manichino è frequente nelle opere dell’artista: egli spiegò che il soggetto gli fu ispirato da un dramma scritto dal fratello, Alberto Savinio, il cui protagonista è l’uomo senza volto. Il manichino, oggetto sartoriale, unito a oggetti e citazioni apparentemente casuali, allude forse all’assenza di personalità dell’uomo-automa contemporaneo. Le ombre lunghe fanno intuire un’ora tardo meridiana, l’ambientazione è deserta, gli spazi architettonici inabitabili sembrano fondali scenografici che non hanno la funzione di scandire lo spazio, quanto di creare un’atmosfera magica e surreale. La prospettiva, riconoscibile nella pavimentazione ad assi di legno, non è coerente con il resto dell’ambientazione.

Giorgio de Chirico, Ettore e Andromaca, 1917, Collezione privata, Milano.


Il quadro delle Muse inquietanti rappresenta una piazza che sembra un palcoscenico, in cui sul fondo si riconoscono il Castello Estense di Ferrara e una fabbrica con due ciminiere, mentre sulla destra vi è un palazzo immerso nell’ombra. In primo piano si trovano due figure immobili: la prima, in piedi e di spalle, ha la testa da manichino sartoriale, su un busto da statua classica: la sua veste ricorda le scanalature di una colonna dorica. La figura seduta è priva di testa, questa è accostata alle gambe, ma le cuciture da cui è segnata suggeriscono l’appartenenza a un fantoccio di pezza anziché a una statua. A terra ci sono vari oggetti, tra cui una scatola che ricorda quelle dei giocattoli dell’infanzia. Le due figure in primo piano immobili sono le malinconiche muse ispiratrici dell’artista. Quella a destra è seduta e priva di testa, che troviamo appoggiata a terra, è segnata da cuciture e questo ci dice che si tratta di un fantoccio di pezza. La figura a sinistra, di spalle, è una statua classica la cui testa è sostituita da un manichino: la sua veste ricorda le scanalature di una colonna. Ogni elemento nel dipinto ha una propria scala di rappresentazione e una prospettiva indipendente che lo isola dagli altri. La composizione è equilibrata, nonostante lo spazio prospettico sia forzato. Una luce bassa crea ombre molto marcate. I colori sono caldi e saturi, le figure sono nitide e perfettamente disegnate. Si riconosce, sullo sfondo, il castello di Ferrara e una fabbrica. In primo piano manichini e oggetti posti quasi su una scena teatrale, con il palcoscenico inclinato verso gli spettatori. La città appare un luogo silenzioso, con elementi che determinano un effetto di disorientamento percettivo. È l’angoscia della città moderna: tutto è sospeso.

Giorgio de Chirico, Muse inquietanti, 1960, Collezione privata, Roma.

Ritorno all’ordine

Negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale, i gruppi delle Avanguardie storiche si dispersero e si affievolì la loro carica provocatoria. La letteratura e le arti figurative espressero il bisogno di tornare alla semplicità e alla chiarezza. A questa esigenza corrispose una nuova attenzione al realismo, il richiamo al classicismo, la scelta di soggetti quotidiani. Ne derivò un’immagine del presente pacata e intimista, in atmosfere ferme e malinconiche. Tale atteggiamento fu definito “Ritorno all’ordine”. Dal 1918 al 1922 la rivista Valori Plastici sollecitava il recupero delle radici della propria cultura e, dunque, lo studio della maniera classica, dei pittori del Trecento e del Quattrocento. Tra gli altri, vi collaborarono personalità come Carrà, De Chirico, Morandi, Savinio, Martini, Casorati e Severini. Nella fase cha coinvolto molti artisti, definita appunto Ritorno all’ordine, Carlo Carrà sente l’esigenza di tornare alla chiarezza del passato, di ritrovare una forma pura e ordinata e ricercare le radici della propria cultura artistica, attraverso lo studio di artisti come Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, Mantegna e Giovanni Bellini. In questa fase le forme sono semplificate ed essenziali, i volumi sono nitidi. Su tutto domina una sensazione di solidità, ma anche di sospensione e di attesa. Dopo aver militato nel movimento futurista, Carrà aderì alla pittura Metafisica, poi si isolò elaborando una visione più intima dell’arte. Al dinamismo futurista e al simbolismo geometrizzante del periodo metafisico oppose il recupero della tradizione italiana del passato: semplificò i volumi e la composizione, creando immagini statiche e di assoluto equilibrio. Nel periodo del Ritorno all’Ordine è evidente lo studio di Giotto e della pittura del Quattrocento: le forme sono essenziali, ma fortemente evocative. Nell’opera Pino sul mare, in primo piano possiamo notare una spiaggia sul mare, la facciata di una casa sulla sinistra, di scorcio, e sulla destra un pino marittimo dal tronco liscio e nudo, piegato dal vento verso il centro, con un ramo monco e altri 2 che sorreggono la piccola chioma. In mezzo, tra la casa e il pino, un cavalletto usato come stenditoio, con un panno bianco, steso ad asciugare: sul terreno, pochi ciuffi d’erba sparsi. Sullo sfondo, un mare liscio e piatto, e, al di sopra, un cielo bianco e azzurro, immerso nella luminosità del primo mattino. Dietro il pino si staglia un promontorio roccioso, con pochi crespi di vegetazione, entro il quale si apre una porta di forma quadrata, che ricorda l’ingresso di una grotta misteriosa. La composizione è classica, semplicissima, ridotta all’essenziale, ma ben equilibrata, lo spazio è definito dallo scorcio prospettico della casa e dalla sovrapposizione della figura del pino. Nel dipinto non esistono ombre nette, i colori sono stesi in tinte piatte, con qualche sfumatura per il cielo. Il chiaroscuro è utilizzato solo per i volumi dell’albero e dell’ingresso della caverna, mentre l’atmosfera è sospesa e misteriosa. Il senso ancora metafisico di desolato eppure dolcissimo silenzio è esaltato dall’assenza della figura umana: essa è solo evocata nella casa, nel panno steso sul cavalletto e nella cava che chiude la composizione sulla destra. Carrà presenta un paesaggio di mare calmo e sereno, dai colori luminosi.
Carlo Carrà, Pino sul mare, 1921, Collezione privata.

Giorgio Morandi

Nasce a Bologna nel 1890. Nel 1907 si iscrive all’Accademia di belle arti: i suoi riferimenti vanno da Cézanne a Rousseau, da Picasso a Derain. Parallelo è l’interesse che Morandi sviluppa per l’arte italiana del passato: nel 1910 a Firenze ammira i lavori di Giotto, Masaccio e Paolo Uccello. Gli anni della guerra sono gli anni della stagione metafisica, cui appartengono una decina di opere. Negli anni venti le sue opere si fanno più plastiche: comincia l’epoca delle nature morte, della metafisica, degli oggetti più comuni. Dopo aver insegnato per molti anni nelle scuole comunali di disegno, nel febbraio 1930 ottiene per “chiara fama” e “senza concorso” la cattedra di incisione presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove insegnerà fino al 1956. Dopo un anno di malattia, muore a Bologna nel 1964. Giorgio Morandi ha sempre operato in solitudine nella sua Bologna, lontano dalle correnti e dai clamori. Nelle sue nature morte non c’è nulla di superfluo, pochi oggetti, tratti dalla quotidianità, sono disposti su superfici spoglie e rappresentati nella loro essenzialità, come solidi geometrici. Tutto è immerso in un’atmosfera silenziosa e immobile. Seppur pittore isolato, Morandi è stato sempre attento alle novità artistiche del suo tempo. Espose con i Futuristi e partecipò all’esperienza metafisica. Successivamente nel 1919 si accostò ai principi sostenuti dal gruppo di artisti legato alla rivista Valori Plastici, aderendo al movimento artistico denominato Ritorno all’Ordine. Predilesse soggetti come la natura morta e i paesaggi, con pochi oggetti, isolati e immobili, indagati in modo profondo: egli voleva comprendere l’essenza delle cose, studiare il rapporto tra le forme, sottraendole al concetto di tempo e di spazio. Nelle tele di Morandi non vi è nulla di superfluo: non si raccontano storie e anche i suoi paesaggi sono spogli. Morandi utilizza pochi colori, tendenzialmente nella gamma degli ocra e dei bruni, con rosa, grigi, toni violacei e il bianco. Non a caso egli amò l’incisione, in cui le forme sono modulate nei toni dal bianco al nero. Le caratteristiche stilistiche delle nature morte di Morandi sono: pochi oggetti, disposti con molta attenzione, in composizioni equilibrate; gli oggetti sono accostati o collocati l’uno davanti all’altro; pochi anche i colori, nella gamma del marrone, ocra, grigio e bianco. Nella natura morta del 1932, Morandi raffigura gli stessi oggetti che compaiono, in posizioni appena diverse, in moltissime altre opere dell’artista. Il colore è pastoso e denso, i toni cromatici sono essenziali, nella gamma dei bruni e degli ocra. Nella composizione manca una rigida geometria delle figure, ma gli oggetti sono disposti secondo un ordine attentamente studiato.


Giorgio Morandi, 1932, Galleria Nazionale d'arte moderna, Bologna.

Mario Sironi

Nasce a Sassari nel 1885. Si trasferisce a Roma, dove frequenta l’Accademia delle Belle arti e lo studio di Giacomo Balla, stringendo amicizia anche con Severini e Boccioni. Nel 1914, trasferitosi a Milano, si avvicina al Futurismo, di cui condivide l’esperienza bellica di volontario ciclista a fianco di Marinetti e Sant’Elia. Nel 1922 è uno dei fondatori del gruppo del Novecento. Il Ritorno all’Ordine di Sironi si manifesta in maniera differente: è più tenebroso e cupo, senza le vedute magiche, chiare e cristalline degli altri novecentisti. Spazia dalla grafica alla scenografia, dall’architettura alla pittura murale, dal mosaico all’affresco, realizzando opere monumentali e celebrative del regime fascista. Nel dopoguerra la pittura di Sironi si fa cupa e drammatica, su tele di piccole dimensioni. Muore a Milano nel 1961. Sironi aderì dapprima al Futurismo, quindi, seppur per breve tempo, alla pittura Metafisica. Nel primo dopoguerra fu uno dei più convinti del ritorno alla tradizione, cioè alla figurazione, alla volumetria e alla qualità della tecnica pittorica. Fu uno dei fondatori di Novecento, il movimento che si prefiggeva il ritorno al realismo pittorico, anche se interpretato in chiave magica. Dipinse scene di città, interni, figure, ma si cimentò anche nella pittura murale, cui attribuiva una grande qualità educativa per le masse. Interessanti sono i suoi paesaggi urbani, dove lo spazio è reso con un linguaggio sintetico, mediante pochi piani pittorici. Nel suo dipinto La Periferia, la città è vista dall’alto, resa in forme geometriche rigidamente squadrate: i volumi sono solidi, anche grazie alla luce radente che indica un sole quasi al tramonto. La periferia industriale appare come un luogo deserto, privo di vita, nonostante la presenza di ciminiere, tram, binari e caseggiati, simboli della modernità. È un paesaggio che comunica solitudine e isolamento. L’immagine, in sé bloccata, è resa più dinamica grazie all’ampia curva delle rotaie, sulla sinistra e alla posizione inclinata della costruzione in primo piano.

Mario Sironi, Periferia, 1922, Collezione privata, Venezia.


Felice Casorati

Nasce a Novara nel 1883. Da ragazzo si appassiona alla musica, ma deve interromperne lo studio per motivi di salute. Si laurea in legge nel 1906, ma già si dedica alla pittura, seguendo un gusto simbolista e da Art Nouveau. Espone il suo primo quadro alla Biennale di Venezia del 1907 e partecipa a numerose esposizioni, ottenendo discreti consensi di critica. Allo scoppio della prima guerra mondiale viene arruolato per 3 anni ed alla fine della guerra si trasferisce con la famiglia a Torino. Il Ritorno all’Ordine di Casorati assume caratteristiche di magico isolamento, improntato alla classicità quattrocentesca. È tra gli iniziatori del Realismo magico, con raffigurazioni realistiche in un’atmosfera quasi metafisica. Negli anni trenta egli diviene a Torino il punto di riferimento delle giovani generazioni, che costituiranno il Gruppo dei Sei di Torino. Prosegue nell’indagine dei suoi soggetti prediletti, come nature morte, modelle, paesaggi, manichini, amplificando la struttura metafisica delle composizioni. Muore a Torino nel 1963. La pittura di Casorati è alla ricerca della purezza di forme essenziali. Per raggiungere il suo obiettivo utilizza composizioni assolutamente rigorose e studiate nei minimi dettagli.  Il dipinto Silvana Cenni, si ispira con chiarezza all’organizzazione compositiva di Piero della Francesca e al senso di immobilità silenziosa e solenne delle sue opere. La donna sembra seduta su un trono, in posa ieratica, come nella Sacra conversazione di Brera. Casorati è artefice di un realismo magico, cioè di una pittura che propone soggetti reali e realistici, ma immersi in una misteriosa staticità, immutabili nello spazio e nel tempo. Il pittore stesso affermò “adoro le forme statiche”. Resta sempre il gusto e la ricerca dell’ornamento (alla maniera di Klimt) nel tessuto a fiori.

Felice Casorati, Silvana Cenni, 1922, Collezione privata, Torino.

Articolo di Dario Romano di Arte Divulgata.













Commenti

  1. Sistacomedautunnosuglialberi1 novembre 2024 alle ore 15:39

    Grazie. Condividere la cultura è sempre molto importante.

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